mercoledì 29 settembre 2010

L'Iraq disilluso

Armi nel fodero, lente ritirate, luci soffuse. Zio Sam chiama, in 100mila rispondono a canone inverso home sweet home. A sette anni di distanza l’America Obamiana chiude la parentesi militare in terra irachena.

Così, perlomeno, come vuole la vulgata. In realtà resteranno in medio oriente un totale di 56mila “advisors”, non più indicati come “brigate di combattimento”, ma come “brigate di assistenza e consulenza”. Traduco: l’esercito americano offrirà la propria consulenza al timido esercito iracheno, supporto logistico e aereo (manca infatti una aviazione irachena) affiancandolo via terra anche in eventuali operazioni militari. Ovviamente le truppe speciali made in USA sono da conteggiare nella cifra. 56mila anfibi con l’essenziale compito di addestrare le 200mila forze irachene; l’obiettivo è sostituire con un esercito stabile le forze occupanti al fine di garantire la sicurezza nazionale in modo autonomo. Ulteriore necessità pare quella di picchettare il perimetro della flebile ed insicura democrazia mediorientale. Teniamo in considerazione che la breve esperienza del regime democratico nel post-Saddam ha retto essenzialmente sulla forza degli M16 più che su un sincero slancio affettivo. Oltre a questo sarebbe bene ribadire che sebbene negli ultimi tempi ci si sia sforzati per garantire un confronto elettorale non significa di trovarsi dinanzi ad un paese con un “democratesimo” capillare.

Il famoso discorso del Mission Accomplished di G.W.Bush rendeva più fede alla stagione delle baionette piuttosto che a quella attuale, dove la sfida non è lanciata più ad obiettivi militarmente strategici o alla revanche dell’orgoglio patrio ferito ma all’autonomia dello stato e delle guide politiche irachene. Questo è l’Iraq di Obama, è l’Iraq del post Surge di Peatreus, l’Iraq della crisi economica mondiale; questa è la fine nominale di una guerra dettata dalla scarsità di prospettive politiche a fronte di una causa economica non pienamente riuscita nel suo intento, affossata da uno sviluppo militare che ha provato la debolezza strategica americana la quale appariva sempre più l’elemento ignorato dall’amministrazione Bush. La pianificazione bellica ha rivelato una endemica mancanza di lucidità gestionale a lungo termine. Una lacuna grave che ora a colmare dovrà essere un’altra amministrazione, con un taglio non solo politico ma ideologico, del tutto differente; fatto che dovrebbe per ragione di molti analisti politici costituire un vantaggio ma che invece sta svelando un grave impaccio a causa della carenza di personalità del presidente Obama, il quale non sembra in grado di portare sino alle sue naturali conseguenze le promesse politiche fatte in campagna elettorale su questo tema.

Promesse che facevano sperare non solo nel rientro dei ragazzotti americani dalle proprie madri, ma in una strategia vincente che potesse sollevare le sorti di un paese economicamente inesistente e socialmente diseguale; questo alla luce di una di una immemore instabilità nell’area mediorientale della quale Obama è stato reso pacificatore ancor prima di riallestire lo studio ovale.

Il discorso si complica se si tende a rimandare le difficoltà anche a ragioni concernenti la lobbistica e su come essa tenga in piedi il sistema a stelle e strisce, e sul fatto di come questa influenzi la maggior parte delle scelte in politica sia interna che estera. Il Presidente dovrà trovare la giusta via per soddisfare gli appetiti dei capitali americani coordinando con essi l’avvio di una nazione che non riesce ancora ad essere tale. Il ritiro delle truppe, o meglio forse lo spostamento di esse nel teatro afgano, rischia di indebolire la portata delle soluzioni attuabili. La pena del “ritiro” potrebbe essere un’ulteriore fase di instabilità politica, dove forze sommerse potrebbero tornare in superficie per richiedere lo spazio perduto.