domenica 12 giugno 2011

Memoria di un referendum non vissuto

In Italia tutto inizia nel modo sbagliato, sempre contro qualcosa. L'inizio è sufficientemente sbagliato quando ci si scaglia contro qualcosa, figuriamoci se riuscissimo a mescolare il "qualcosa" con il "qualcuno". Italia paese di abrogatori tout court.
Il pensiero nasce spontaneo appena si rileggono vecchi interventi di politici, tanto in voga ieri quanto oggi, che sostenevano una causa opposta a quella che attualmente vorrebbero veder triturata dall'esito popolare. Un uomo può cambiare idea, ne sono convinto. Quanti si stancano dei propri gusti! Ma un uomo politico, credo io, non può mai cambiare idea (premesso ovviamente che ne abbia una sua); cambiano invece le contingenze, dichiara il contrario di quel che pensava(?!) perché ai sondaggi non può dire no, perché le nostre folle non si guidano si assecondano.
Potesse però essere solo ragione di idee a tener il banco di questo titanico scontro contro la modernità. In questa Italia non vi è nessuna pretesa di voler gestire gli impianti idrici nel modo migliore, di augurare la salute ai nostri vicini di casa, di esser liberi sottoposti...
Vi è solo il gusto di abrogare qualcuno e/o qualcosa... Salvo ovviamente che a qualche altro qualcuno, un giorno, non venisse in mente di abrogare l'ignoranza.

mercoledì 29 settembre 2010

L'Iraq disilluso

Armi nel fodero, lente ritirate, luci soffuse. Zio Sam chiama, in 100mila rispondono a canone inverso home sweet home. A sette anni di distanza l’America Obamiana chiude la parentesi militare in terra irachena.

Così, perlomeno, come vuole la vulgata. In realtà resteranno in medio oriente un totale di 56mila “advisors”, non più indicati come “brigate di combattimento”, ma come “brigate di assistenza e consulenza”. Traduco: l’esercito americano offrirà la propria consulenza al timido esercito iracheno, supporto logistico e aereo (manca infatti una aviazione irachena) affiancandolo via terra anche in eventuali operazioni militari. Ovviamente le truppe speciali made in USA sono da conteggiare nella cifra. 56mila anfibi con l’essenziale compito di addestrare le 200mila forze irachene; l’obiettivo è sostituire con un esercito stabile le forze occupanti al fine di garantire la sicurezza nazionale in modo autonomo. Ulteriore necessità pare quella di picchettare il perimetro della flebile ed insicura democrazia mediorientale. Teniamo in considerazione che la breve esperienza del regime democratico nel post-Saddam ha retto essenzialmente sulla forza degli M16 più che su un sincero slancio affettivo. Oltre a questo sarebbe bene ribadire che sebbene negli ultimi tempi ci si sia sforzati per garantire un confronto elettorale non significa di trovarsi dinanzi ad un paese con un “democratesimo” capillare.

Il famoso discorso del Mission Accomplished di G.W.Bush rendeva più fede alla stagione delle baionette piuttosto che a quella attuale, dove la sfida non è lanciata più ad obiettivi militarmente strategici o alla revanche dell’orgoglio patrio ferito ma all’autonomia dello stato e delle guide politiche irachene. Questo è l’Iraq di Obama, è l’Iraq del post Surge di Peatreus, l’Iraq della crisi economica mondiale; questa è la fine nominale di una guerra dettata dalla scarsità di prospettive politiche a fronte di una causa economica non pienamente riuscita nel suo intento, affossata da uno sviluppo militare che ha provato la debolezza strategica americana la quale appariva sempre più l’elemento ignorato dall’amministrazione Bush. La pianificazione bellica ha rivelato una endemica mancanza di lucidità gestionale a lungo termine. Una lacuna grave che ora a colmare dovrà essere un’altra amministrazione, con un taglio non solo politico ma ideologico, del tutto differente; fatto che dovrebbe per ragione di molti analisti politici costituire un vantaggio ma che invece sta svelando un grave impaccio a causa della carenza di personalità del presidente Obama, il quale non sembra in grado di portare sino alle sue naturali conseguenze le promesse politiche fatte in campagna elettorale su questo tema.

Promesse che facevano sperare non solo nel rientro dei ragazzotti americani dalle proprie madri, ma in una strategia vincente che potesse sollevare le sorti di un paese economicamente inesistente e socialmente diseguale; questo alla luce di una di una immemore instabilità nell’area mediorientale della quale Obama è stato reso pacificatore ancor prima di riallestire lo studio ovale.

Il discorso si complica se si tende a rimandare le difficoltà anche a ragioni concernenti la lobbistica e su come essa tenga in piedi il sistema a stelle e strisce, e sul fatto di come questa influenzi la maggior parte delle scelte in politica sia interna che estera. Il Presidente dovrà trovare la giusta via per soddisfare gli appetiti dei capitali americani coordinando con essi l’avvio di una nazione che non riesce ancora ad essere tale. Il ritiro delle truppe, o meglio forse lo spostamento di esse nel teatro afgano, rischia di indebolire la portata delle soluzioni attuabili. La pena del “ritiro” potrebbe essere un’ulteriore fase di instabilità politica, dove forze sommerse potrebbero tornare in superficie per richiedere lo spazio perduto.

giovedì 21 gennaio 2010

"Il contrario di quel che penso mi seduce come un mondo favoloso."

Leo Longanesi

mercoledì 20 gennaio 2010

Dal «Manifesto dei Conservatori» di Giuseppe Prezzolini

«Sul mio atteggiamento verso il fascismo molte son le leggende e poche le letture. Il fascismo durò circa trent’anni fra incubazione, esplosione, conflagrazione, estinzione. Modificai il mio atteggiamento a seconda di queste vicende. Ma non in vista di appetiti sociali o finanziari, come accadde a molti. Ero meglio informato di moltissimi italiani. Vivevo all’estero, oltre gli americani leggevo giornali italiani, e periodici antifascisti di Parigi. Però non credevo molto né a quelli né a questi. C’erano silenzi e bugie, cecità e fantasie da ambo le parti. Passavo le vacanze in Italia e parlavo in confidenza con pochi amici fascisti e antifascisti fidati. Visitavo Croce e Mussolini. Non è il caso di seguire le mie previsioni. Non sempre sarò stato indovino come quando nel 1920 dissi a Gobetti, quasi col cronometro, che il fascismo sarebbe durato venticinque anni.

Ci son due punti sui quali voglio fare il punto.

Il primo è la guerra d’Etiopia.

Fu il culmine del fascismo. Persino molti antifascisti si commossero per le sanzioni. Molte loro spose regalarono gli anelli alla patria. A me l’impresa non piaceva. La conquista dell’Etiopia aumentava il numero di sassi che si dovevano raccattare per poter coltivare quelle terre; e poi una colonia separata dal mare e da Paesi nemici non si sarebbe potuta difendere, come accadde infatti, nonostante il valore delle truppe e del Duca d’Aosta. Ma mi stizzivano le lezioni di morale di inglesi, americani e francesi. Avevano commesso, anche recentemente, le stesse rapine e ne stavano godendo la gloria ed i benefici, senza pensare un momenti di restituire le terre rubate, secondo le loro idee umanitarie e democratiche, ai popoli ai quali le avevano portate via.

Il secondo punto è il giudizio storico sul fascismo.

Sono stato uno dei primi a considerare il fascismo come un fenomeno naturale che ha avuto ragioni profonde e uno svolgimento che rientra nei limiti della storia di tutti i tempi. Non va giudicato da un punto di vista morale. Il fascismo è un fenomeno degno di attenzione come il comunismo. In Italia ci fu un tentativo di rinnovare un Paese scosso dalla guerra, e farlo più orgoglioso, più energico, più virile, più avventuroso, e introdurlo nel gioco delle grandi potenze; Mussolini sbagliò l’ultima carta nel calcolare il nemico e anche la capacità del popolo italiano, e portò alla sconfitta e al disastro. In Russia ci fu dopo la guerra perduta una rivoluzione che voleva presentare al mondo una nuova civiltà, in cui gli uomini non sarebbero stati più sfruttati, avrebbero goduto il benessere, la giustizia, l’affratellamento; ma dopo aver distrutto l’aristocrazia e aver ucciso alcuni milioni di “coltivatori diretti”, la popolazione viene sfruttata da una burocrazia lenta e incapace a dirigere l’economia in modo soddisfacente, le spese militari sono le più alte del mondo, le truppe sono impiegate nel reprimere un altro Paese amico che vuole cambiar di governo, oppure ammassate ai confini di un altro Paese comunista. Non so perché si voglia fare una differenza morale fra i due. Ambedue i sistemi hanno usato sistemi simili di illusione, di repressione, di eccitamento, di crudeltà, di ragion di Stato che furon usati per secoli, salvo che in proporzioni maggiori di quelle dei tempi passati. Dunque studiamo questi fenomeni per quello che furono, senza far differenza fra i due.

Oggi c’è una tendenza generale a considerare il fascismo con occhio da storico ed a questa tendenza dirò che io mi attenni anche prima che esso avesse compiuto il suo corso e appartenesse al cimitero dei tentativi di dare alla nazione un’organizzazione capace di conservare nella lotta l’indipendenza e i propri caratteri nazionali. Il fascismo poté vantarsi di essere idea italiana che trovò imitatori in altri Paesi, e parve, per un certo tempo, soddisfare i bisogni di alcuni Paesi europei e cercare una via di mezzo tra il comunismo e l’economia liberale. Da questo punto di vista il fascismo corrispondeva ad uno sviluppo generale verificatosi in tutto il mondo, caratterizzato dall’espandersi delle funzioni economiche dello Stato. Gli episodi di soppressione della libertà individuale, l’arricchimento dei capi, la corruzione pubblica e la crudeltà politica che resero odioso il fascismo non erano che avvenimenti superficiali, in nessun modo nuovi nella vita italiana, ma capaci di oscurare la realtà che aveva dato origine all’esperimento fascista.

Il fascismo fu un movimento sociale e politico di notevole importanza, se poté durare ventidue anni. Non poté sorgere senza ragioni profonde, del resto facili a vedersi. Infatti, esso fu principalmente la conseguenza di una guerra, non voluta dalla maggioranza della popolazione, imposta ad essa da piccoli gruppi e da una circostanza di politica estera che non interessava profondamente la popolazione italiana. Tale guerra portò uno sconquasso nelle istituzioni liberali, che erano state appiccicate al Paese piuttosto che nate da esso. Ed in quel disordine una minoranza di veterani, di demi-solde, che erano stati abituati dalla guerra a comandare, a rischiare la vita ed a toglierla agli avversari, ebbe il sopravvento sopra timidi parlamentari, avvocati chiacchieroni, e organizzazioni operaie abituate alle transazioni ed agli scioperi politici, ma non alla lotta violenta.

Il fascismo fu una delle più italiane creazioni politiche che ci siano state. Poiché se guardiamo alla storia d’Italia, quali forme originali di Stato si trovano? Prima di tutto il Papato, universale monarchia in principio, ma storicamente in grande parte formata e nutrita da menti e volontà italiane, poi i Comuni, oligarchie cittadine mercantile, quindi le Signorie, dittature di fatto e bellicose che diventarono ereditarie e conservatrici col tempo, e poi si salta fino al fascismo, che venne imitato in parecchie parti del mondo. Esso fu concepito da italiani, fatto da italiani, tenuto in vita da italiani ed accettato, finalmente, con esaltazione ed apparente entusiasmo, dalla maggioranza degli italiani; i quali si adattarono ad alzare la mano in segno di saluto, a marciare col passo dell’oca, a radunarsi ad ore esatte gridando gli stessi motti, insomma a comportarsi come non si eran mai comportati “collettivamente” in nessuno dei momenti della loro storia, anche quando furono dominati da stranieri.

Il fascismo fu l’apice del Risorgimento italiano, ed anche l’ultimo atto del Risorgimento nazionale ed il più disperato tentativo, non riuscito, di dare unità ai popoli della penisola italiana costituendovi uno Stato forte. Il fallimento di questo tentativo, dovuto a forse estranee al Paese, ha condotto l’Italia a cercar di diventare una provincia dell’Europa, come unico mezzo di salvare e di far valere entro un organismo politico più forte ed ampio le qualità del suo popolo artistico, individualistico e abile; poiché l’alternativa sarebbe la sudditanza alla Russia.

Una cosa è ferma: si può dire molto male del fascismo e di Mussolini; ma chi ne dice male dovrebbe sempre ricordarsi che non avrebbero avuto il buon successo che ebbero per ventidue anni, se non avessero trovato l’appoggio, l’entusiasmo, le dedizioni, le imitazioni la complicità e il benestare, almeno a segni e parole, del popolo italiano. Il fascismo fu una situazione storica che il popolo italiano, salvo eccezioni, tutto quanto, plebe e magnati, clero e laici, esercito e università, capitale e provincia, industriali e commercianti e agricoltori fecero propria, nutrirono col proprio consenso ed applauso, e che, se fosse continuata, oggi essi continuerebbero ad applaudire e a sostenere.

Fascisti e antifascisti hanno collaborato alla rovina dello Stato italiano e si son dati la mano per distruggerlo. Il fascismo, col dichiarare la guerra, l’antifascismo facendo sapere agli alleati che l’Italia era disunita, e indicandola quindi come il punto più debole da attaccare. I fascisti consegnarono l’Italia alla Germania, gli antifascisti agli alleati; tutti insieme prepararono la schiavitù politica sotto lo straniero, che essi preferivano alla vittoria dell’avversario politico interno. Le distruzioni e le rapine sono per metà dei tedeschi e per metà degli alleati. I fascisti non capirono che la Germania non lavorava per il fascismo, ma per sé; e gli antifascisti non capirono che gli alleati non lavoravano per l’antifascismo, ma per se stessi.»


"Die Politik ist keine Wissenschaft, wie viele der Herren Professoren sich einbilden, sondern eine Kunst."

Otto Von Bismarck

martedì 19 gennaio 2010

Che Dio ci conservi i conservatori (Alain De Benoist)

Ripropongo un interessante articolo di Alain De Benoist pubblicato sul "Il Giornale" del 19 gennaio 2009.

In Francia c’è un detto scurrile: «La parola conservatorismo comincia male» (per i francesi «con» è come «mona» per i veneti). Ciò non spiega tutto, ma resta che nessun politico, movimento, giornale o rivista del Paese s’è mai definito «conservatore». Invece in Germania, Inghilterra, Stati Uniti e Canada i conservatori sono una famiglia a parte intera e il termine è molto usato (non negativamente) per indicare un’area politico-culturale, dove coesistono varie tendenze; e poi questa corrente di pensiero ha una forte tradizione intellettuale (da Hume a Oakeshott, passando per Burke e Coleridge, nel caso dei Whigs inglesi), mentre «conservatore» e «conservatorismo» si fanno notare per l’assenza dal vocabolario politico francese.

Naturalmente la parola esiste (è d’origine francese, del resto), ma la si usa quasi solo come peggiorativo. Un «conservatore» in Francia è anzitutto un reazionario, legato al passato, contrario a ogni novità, ansioso d’impedire ogni evoluzione sociale: uno che vuol mantenere l’ordine sociale esistente (lo statu quo) a ogni costo, sempre che non sogni un’impossibile restaurazione o un «ritorno» ai valori tradizionali (statu quo ante), perché «prima tutto era meglio». Nel migliore dei casi, il conservatorismo è un bel museo, ma un museo morto. Definizione che Edmund Burke non avrebbe sottoscritto, perché per lui «uno Stato senza mezzi per cambiare è anche senza mezzi per durare» (Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, 1790, tr. it., Utet).

In Italia la situazione è simile: «conservatore» ha assunto una risonanza peggiorativa e raramente si sono definiti così autori ora considerati tali, da Benedetto Croce e Giuseppe Prezzolini ad Augusto del Noce, Giovannino Guareschi, Elémire Zolla e Sergio Romano, passando per Vilfredo Pareto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Maffeo Pantaleoni, Giovanni Papini, Luigi Pirandello e Leo Longanesi.

Anche la sinistra francese ha spesso denunciato figure e movimenti di destra come «conservatori», inadatti al cambio dei costumi e a rispondere alle sfide del tempo. Ma la destra usa il termine anche per stigmatizzare l’«arcaismo» dei sindacati e il «passatismo» di ecologisti e Verdi. Più in generale la classe politica d’ogni tendenza chiama «conservatrici» le reticenze del corpo sociale davanti alle riforme «necessarie». Su Le Figaro un giornalista commentava così le difficoltà del governo per far approvare le riforme (scuola, audiovisivo, sistema sanitario e pensionistico, ecc.): «Conservatorismo, fatalità francese?».

Una frazione della destra francese - certi ambienti liberali - ha elogiato il «conservatorismo» solo all’epoca della «rivoluzione conservatrice» di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, o più di recente per simpatia verso i «neoconservatori» attorno a George W. Bush. Gli stessi ambienti hanno talora presentato Nicolas Sarkozy, di cui avevano sostenuto la candidatura presidenziale nell’aprile 2007, come capace di compiere - sull’esempio di Reagan e della Thatcher, ma anche di Aznar in Spagna, Howard in Australia e Koizumi in Giappone - una «rivoluzione conservatrice alla francese». Il termine «conservatore» era allora usato nel senso anglo-americano. Ma Sarkozy ha subito respinto l’etichetta: «La forza dei conservatorismi non va sottovalutata. La loro capacità di nuocere è certa, ma la loro forza è minore dell’aspirazione naturale d’ogni società ai cambiamenti, alla riforma, alla modernizzazione».

In Germania si chiama «conservatorismo» ciò che in Francia è «destra». Ma i due termini non sono esattamente sinonimi. In Francia si distinguono tre grandi famiglie a destra: la contro-rivoluzionaria, forte nel secolo XIX (quando i monarchici erano ancora una forza politica e le istituzioni repubblicane non erano ancora bene in sella); la destra bonapartista, che ha condotto alla destra rivoluzionaria, al fascismo e al gollismo; la destra «orleanista», cioè liberale, oggi largamente dominante. Come spiegare l’assenza del «conservatorismo» nel paesaggio politico francese? Per rispondere, François Huguenin ha appena pubblicato Le conservatisme impossible. Libéraux et réactionnaires en France depuis 1789 (ed. La Table ronde).

Huguenin dà una spiegazione storica. Osservando che in Germania e nei Paesi anglosassoni fra i conservatori ci sono tanto «nazionali» quanto «liberali», sottolinea che tale alleanza è divenuta impossibile in Francia con la rivoluzione del 1789. Infatti essa ha opposto irrimediabilmente chi negava del tutto le idee rivoluzionarie (da Joseph de Maistre e Louis de Bonald a Charles Maurras) e chi, a destra, ne accettava l’essenziale, pur rifiutandone la pratica (da Alexis de Tocqueville e Benjamin Constant a Raymond Aron e Bertrand de Jouvenel). Certo gli uni e gli altri, per lo più, hanno denunciato la passione dell’uguaglianza e della religione della sovranità popolare difesa da Jean-Jacques Rousseau, ma da punti di vista ben diversi. Infatti i liberali continuano a vedere nei principi rivoluzionari principi emancipatori, latori di libertà, e rifiutano gli aspetti propriamente bellicosi e virtualmente totalitari del movimento, di cui testimoniano il genocidio in Vandea e il Terrore.

«Il popolo onnipotente è più pericoloso che un tiranno», diceva Benjamin Constant. Invece i contro-rivoluzionari, vedendo nella Rivoluzione un «blocco» indissociabile, ne condannavano i principi in toto. I due campi si sono così scissi definitivamente, rendendo impossibile ogni «conservatorismo». Nei secoli XIX e XX la destra liberale, acquisita all’ideologia del progresso, legata al primato individuale e tradizionalmente diffidente del potere politico, s’è sempre opposta a una destra che, tradizionalista o no, invece difendeva in primo luogo le prerogative statali, il concetto di «bene comune» e una concezione organica e comunitaria della vita sociale. Per complicare tutto, a queste destre, una contro-rivoluzionaria e l’altra liberale («orleanista»), s’è presto aggiunta la terza, la destra «bonapartista», di cui s’è parlato, tipica per la rivalutazione della rivoluzione francese, un partito preso a favore del popolo (e delle classi popolari), una certa indifferenza per i temi religiosi, un’adesione senza riserve ai principi repubblicani e un certo favore per forme di governo autoritarie o plebiscitarie.

Deplorando tale situazione, Huguenin auspica l’unificazione delle due correnti in un vasto movimento «conservatore» e invita i liberali ad abbandonare l’idealismo morale, centrato sui diritti individuali, l’inclinazione a rifiutare il principio stesso dell’autorità politica in nome delle prerogative dell’economia e del mercato, dandosi una «visione positiva del potere». Gli eredi dei contro-rivoluzionari dovrebbero invece rinunciare alla visione assolutista della sovranità, alle reticenze per la democrazia e alla stessa idea di libertà. Tesi commentata (il giornale monarchico Les Epées ha presentato il conservatorismo come «idea d’avanguardia»), ma senza effetto.

Ma la spiegazione di Huguenin non vale per l’Italia, che non ha avuto la Riforma, ma solo la Controriforma, né la Rivoluzione, ma solo l’occupazione francese. Nel 1950 il politologo inglese R.J. White scriveva: «Imbottigliare il conservatorismo, con tanto d’etichetta, è come voler liquefare l’atmosfera \[...\]. La difficoltà sta nella natura della cosa. Più che dottrina politica, il conservatorismo è abitudine spirituale, modo di sentire, modo di vivere».

lunedì 22 giugno 2009

"Una cosa buona non ci piace, se non ne siamo all'altezza"

Friedrich Nietzsche